Istinto, ambizione e ricerca di contaminazioni sono i motori immobili nel percorso dello chef Lorenzo Cogo, classe 1985 e 1 stella Michelin. Siamo andati al Garibaldi a Vicenza per farci raccontare com’è il suo rapporto con i social, come si comunica un’identità dinamica e spiccata come quella della sua cucina e quali sono i progetti per il futuro.
Come agenzia intendiamo il design uno strumento che possa risolvere i problemi e trasformarli in comunicazione. Quando tu ti approcci a qualcosa di nuovo – un piatto, un’esperienza o altro – qual è il tuo percorso di progettazione? Ne hai uno prestabilito? C’è una fase di ideazione e di prova?
Qualcosa prima di tutto deve entusiasmarmi – che sia la passione per il prodotto in sé o anche il legame umano con il produttore. E allora lì diventa una sfida personale. C’è una fase di esplorazione del prodotto e di apprendimento degli ingredienti, da queste spinte poi si arriva al piatto. Ma non c’è un filo logico. Non c’è un percorso prestabilito. Ogni piatto ha una sua storia, un motivo per cui è nato, un suo tempo. È il motivo per cui campo idee per aria e poi, a distanza di mesi magari, le riprendo.
Dall’esordio a Marano Vicentino all’apertura del Garibaldi in Piazza dei Signori, quali sono stati i tuoi strumenti di comunicazione e come sono cambiati in questi dieci anni di attività?
Ho sempre seguito tutto io, dall’inizio. Non ho mai avuto uffici stampa. Non ho mai avuto persone che curassero le relazioni al posto mio. E questa modalità diretta di raccontarmi è stata anche la mia fortuna perché le persone, a meno che tu non sia già inarrivabile e quindi si aspettino che ci sia un filtro, cercano te. E se le persone ti cercano significa che hai qualcosa da dire. È sempre stato il mio modo di muovermi – anche sui social. Poi arrivando qui le cose sono cambiate. Ma quando ti sposti devi cambiare, no? Qui sono ripartito da zero. Mi sono allontanato dalle scelte fatte e di fronte a una nuova popolarità mediatica ho preferito essere una goccia costante piuttosto che una cascata. Ho deciso di togliermi, di non partecipare più a tanti eventi, di diventare selettivo nelle mie collaborazioni mantenendo solo quelle che avessero un senso logico nel mio percorso. Ho voluto che le persone venissero qui perché credessero nel valore del mio progetto. In questo nuovo spazio ho cercato di costruire un’identità più matura. La mia cucina è diventata più equilibrata e più semplice, l’ambiente è diventato più personale, il menù oggi è esclusivamente di degustazione – non più alla carta. E anche a livello comunicativo voglio trasmettere un progetto imprenditoriale serio. Parlo di cultura, di design, di bellezza partendo da un’idea che oggi è sempre più importante. Quella del trasmettere un’identità.
La sostenibilità in senso lato è scelta dei prodotti, rapporto con le persone e relazione con il territorio. Qual è il tuo rapporto con la sostenibilità e come entra in relazione con la ricerca di identità?
È un tema un po’ pesante e stancante. Ma quando si estremizza e non si cerca un equilibrio, tutto diventa così. Oggi ci raccontiamo che la plastica è il nemico. Non lo so, credo che per prima cosa ci sia bisogno di trovare il buon senso. Poi certamente è importante essere sensibili, cercare di migliorarsi e di rispettare le persone con cui lavori. Personalmente mi impegno sempre nella promozione dei luoghi, utilizzo sempre materie prime locali, cerco di valorizzarne le caratteristiche e non scendo a compromessi sulla qualità. Come team di lavoro, poi, abbiamo avviato un progetto interno per diminuire gli sprechi di cibo al minimo.
Prima accennavi ai social come strumento per comunicare il tuo percorso. Quando crei un piatto pensi mai al fatto verrà fotografato da qualcuno?
In cucina ho imparato che la parte più importante è quella funzionale, cioè che il piatto deve essere mangiato. Non mi piace la perfezione, mi piace la naturalità delle cose. E questo rappresenta il mio approccio alla cucina: istintivo. Come un prodotto per me non deve essere perfetto, un piatto non deve trasmettere una sensazione di perfezione, ma di autenticità. Certo – l’estetica ha il suo valore, ma è importante ricordare che il piatto deve essere pensato per trasmettere il tuo messaggio in modo chiaro, a prescindere da chi lo mangerà e come lo mangerà.
Nella selezione del personale guardi l’aspetto social dei candidati?
Sì, ci pensa Serena. Guarda chi sono, cosa fanno e cerca di ottenere più informazioni possibili prima di assumere una persona. È importante capire chi hai davanti e visto che nei social le persone raccontano la loro vita quotidiana tu puoi farti un’idea. Da questo punto di vista i social semplificano il processo, altrimenti passeresti le giornate a far colloqui.
Quanto è rischioso accentrare l’attenzione sul cuoco anziché sul ristorante?
È una bomba a orologeria, oltre che sbagliato a livello imprenditoriale. Perché il ristorante dovrebbe andare avanti quasi da solo. Ma non è sempre semplice. Nel mio caso, per esempio, le persone vengono per lo chef, quindi è normale che con la mia forza mediatica abbia sempre lavorato su chi sono io e sulla mia personalità. È il mio brand. Ragioniamo spesso su quale sia la strada giusta ed è difficile trovare un equilibrio, a meno che l’attività abbia poca personalità e allora la tua presenza non fa più di tanto la differenza. Però io qui ci ho messo la mia firma e ci sono ogni giorno. Quando sono qui le persone vengono più volentieri e considerano il ristorante come un luogo di qualità. Ma se domani volessi stare a casa per tre giorni sarebbe un problema.
A livello nazional-popolare si tende ad additare lo chef come se volesse metterci la faccia ovunque. Però tu ci dici che in realtà è un fattore di rischio. Come funziona?
Il problema è che il valore sei tu. Non lo stai creando come azienda o come prodotto in modo che possa avere una vita propria e tu possa poi staccarti. Qui se oggi non mi vedono può andare, ma se poi comincio a mancare più giorni che succede? La mia presenza qui conta.
Come ti relazioni con il mondo degli influencer? Hai mai pensato di sfruttarlo in relazione alla tua attività?
Di base ho sempre creduto nel valore delle collaborazioni ma non delle “marchette”. Faccio qualcosa quando sia io sia l’azienda crediamo nel valore del progetto. Per esempio, ho collaborato con Barilla perché è un’azienda che mi supporta in determinati ambiti e che mi chiede aiuto: è una sinergia autentica. Attivo collaborazioni principalmente per la mia persona, non tanto per la mia attività. Al Garibaldi usiamo i social per raccontare cosa facciamo, mentre nei miei profili cerco di comunicare come sono io e quali sono le mie passioni raccontando la mia quotidianità senza avere un feed costruito. Cioè, se sono un idiota lascio che i social lo raccontino. Tante volte il rischio di affidare a qualcuno la tua immagine è che il racconto non è davvero il tuo. E questo fa parecchia differenza perché le persone decidono di seguirti esattamente per quello che sei. Anche al Garibaldi non abbiamo mai speso soldi nei social, se non per la ricerca del personale, e non abbiamo mai comprato like. Non saremo perfetti ma comunichiamo a modo nostro, a differenza di altri locali si appoggiano ad agenzie di comunicazione e capita che sui social finiscano con l’assomigliare a tutti gli altri locali seguiti da quelle agenzie.
Infusion È un progetto che per ora state comunicando con i vostri canali, ma pensando agli ospiti che arrivano gestite un archivio che ne conservi lo storico?
Oggi abbiamo il profilo Instagram @infusion_by in cui abbiamo raccontato Infusion 1, 2 e 3 attraverso video, foto e racconti i piatti che abbiamo creato e il percorso per realizzarli. Infusion è partito nel 2015 ed è proseguito tra il 2016 e il 2017, poi dal 2019 è diventato un progetto vero e proprio anche con una cadenza temporale. Ora l’idea sarebbe quella di realizzare 10 eventi e raccontarli in un libro o in un filmato: in qualcosa che racconti la storia del progetto e il suo progresso.
Perciò Infusion, al di là dell’aspetto di incontro e divulgazione, è un vero e proprio progetto di comunicazione?
Sì. E spero che diventi sempre più grande. Adesso che abbiamo cominciato a collaborare con San Pellegrino, per esempio, abbiamo un vero ufficio stampa. Per ogni realtà con cui collaboriamo cerchiamo di coinvolgere i loro uffici stampa proprio per sfruttare la loro potenza mediatica e creare delle sinergie in cui ognuno metta il proprio per raccontare il progetto e dargli un respiro sempre più internazionale. L’anno scorso abbiamo mosso 270.000 contatti e raggiunto milioni e milioni di utenti.