#Cultura
Sempre più spesso sentiamo la parola “sostenibilità” accanto alla parola “digitalizzazione”: in effetti la digital transformation rende più sostenibili ed ecologici interi settori. Ma il settore digitale in sé? L’ICT è sostenibile dal punto di vista ambientale?
La realtà è che i consumi energetici dovuti al cloud – e a Internet, in generale – sono in costante crescita, tanto che il settore ITC potrebbe presto diventare una delle principali fonti di CO2: se non si aumenta l’efficienza dei data center, il settore potrebbe utilizzare fino al 20% di tutta l’elettricità consumata e arrivare a essere responsabile del 5,5% delle emissioni di carbonio del mondo entro il 2025.
Ma allora, la digital transformation non è sostenibile? Lo è, fino a quando non si verifica il cosiddetto paradosso di Jevons, ovvero: una tecnologia che diventa molto efficiente e si diffonde in modo esponenziale finisce per essere più inquinante di quelle precedenti.
I principali fornitori di servizi in cloud sono in costante competizione per chi è più green e condividono tutti lo stesso messaggio: passare al cloud riduce l’impatto ambientale dell’IT. Ma è proprio così?
Di vero c’è che i grandi fornitori di cloud sono i maggiori acquirenti di energia rinnovabile, hanno i più bassi valori PUE (Power Usage Effectiveness – un indicatore usato per misurare l’efficienza energetica di un data center, calcolando il rapporto tra l’energia che utilizza nel suo complesso e quella utilizzata dalle sole apparecchiature IT prese singolarmente) e stanno innovando con apparecchiature efficienti e progettate su misura.
Per parlare seriamente di sostenibilità del cloud computing è necessario però che le emissioni dei data center vengano contabilizzate e rese pubbliche. A oggi invece, le aziende che devono (o vogliono) includere nel bilancio un report sulla propria impronta ambientale e si appoggiano a fornitori di servizi in cloud, non hanno i dati necessari per calcolare le proprie emissioni utilizzando il protocollo GHG – Greenhouse Gas Protocol, un sistema di reporting che fornisce strumenti e metodologie di calcolo per misurare e quantificare le proprie emissioni di gas climalteranti.
In pratica alle aziende manca la misurazione dei consumi energetici dei data center a cui si appoggiano, da cui discendono le emissioni di gas serra durante la fase d’uso di un’applicazione IT in esecuzione quando ospitata in cloud: quindi le emissioni dei data center e altri impatti ambientali associati non sono contabilizzate e restano nascoste nel cloud stesso.
Mentre la maggior parte dei fornitori di servizi in cloud si concentra solo sulle energie rinnovabili (sarà perché è l’azione più marketing-friendly?), dall’altra ci sono i – pochi – virtuosi del Green cloud computing, ovvero un approccio sostenibile all’informatica, che utilizza più strategie complementari tra loro per migliorare l’impatto ambientale. Vediamo le principali.
La prima best practice del green cloud è l’uso di energia rinnovabile: il top sarebbe che un data center fosse completamente indipendente dal punto di vista energetico, come il Global Cloud Data Center, il data center campus più grande d’Italia a Ponte San Pietro (Bergamo), che si avvale di una centrale idroelettrica di proprietà e di un impianto fotovoltaico per l’intero sostentamento energetico. L’alternativa è l’acquisto, da provider che utilizzano energia solare, idroelettrica o eolica.
I centri di calcolo consumano circa il 50% dell’energia per mantenere la temperatura dei locali a livelli adeguati: il green cloud computing richiede quindi che l’ambiente venga ristrutturato – o progettato da zero – per essere più efficiente. Una pratica diffusa è spostare i data center in aree con un clima più freddo, come il nord Europa, sotto terra o sott’acqua, in container sigillati che permettano uno scambio di calore con l’ambiente circostante.
Avvalersi di software e hardware a basso consumo, prima di tutto.
E poi virtualizzare le risorse e utilizzare architetture di software-defined infrastructure (SDI), per ottimizzare tanti server poco efficienti in pochi nuclei di calcolo e sistemi di storage più grandi e più efficienti.
Le strategie da adottare per ridurre il consumo dei server sono moltissime. Alcuni esempi? Migliorare i flussi di lavoro, la gestione delle cache, del traffico di rete interna al data center e ottimizzare l’archiviazione dei dati.
I centri di calcolo consumano circa il 50% dell’energia per mantenere la temperatura dei locali a livelli adeguati: il green cloud computing richiede quindi che l’ambiente venga ristrutturato – o progettato da zero – per essere più efficiente. Una pratica diffusa è spostare i data center in aree con un clima più freddo, come il nord Europa, sotto terra o sott’acqua, in container sigillati che permettano uno scambio di calore con l’ambiente circostante.
Avvalersi di software e hardware a basso consumo, prima di tutto.
E poi virtualizzare le risorse e utilizzare architetture di software-defined infrastructure (SDI), per ottimizzare tanti server poco efficienti in pochi nuclei di calcolo e sistemi di storage più grandi e più efficienti.
Le strategie da adottare per ridurre il consumo dei server sono moltissime. Alcuni esempi? Migliorare i flussi di lavoro, la gestione delle cache, del traffico di rete interna al data center e ottimizzare l’archiviazione dei dati.
Se il Green Cloud Computing sembra essere la soluzione per parlare di sostenibilità nel digitale in modo comprovato, l’obbligo di rendere pubblici i dati relativi alle emissioni ad ora sembra essere l’unico modo per spingere i data center in direzione del Green Cloud Computing (e far sì che le aziende possano completare i calcoli sulla propria impronta ambientale con i dati richiesti dal protocollo GHG). Sad but true?